Cosa dice la legge a proposito del licenziamento?

Dalla giusta causa al giustificato motivo, passando per le tutele poste a garanzia del lavoratore, facciamo chiarezza su quanto prevede la normativa vigente in materia di licenziamenti, individuali e collettivi 

Ai sensi dell'art. 2118 del codice civile, ciascuno dei contraenti può recedere dal contratto di lavoro a tempo indeterminato: nel caso in cui tale diritto venga esercitato dal datore di lavoro si parla di licenziamento, che potremmo quindi definire come la facoltà riconosciuta al datore di lavoro di risolvere unilateralmente il contratto di lavoro. Va tuttavia precisato che il nostro ordinamento vincola tale potestà ad alcune specifiche condizioni, a cominciare dalla sussistenza di una giusta causa o di un giustificato motivo soggettivo (nel qual caso si parla di licenziamento disciplinare) o di un giustificato motivo oggettivo (il licenziamento per ragioni economiche). A garanzia dei diritti del lavoratore la legge prevede inoltre determinate forme e procedure per l’adozione del provvedimento.

La legge sui licenziamenti individuali (L. n. 604/66) impone in particolare ai fini della validità del licenziamento il requisito della forma scritta, oltre all’obbligo di motivazione di cui in premessa: la comunicazione del licenziamento deve quindi contenere la specificazione dei motivi che lo hanno determinato. Nei soli casi eccezionali espressamente previsti dalla legge, è possibile procedere al licenziamento cosiddetto «ad nutum», ossia senza motivazione obbligatoria. Rientrano tra questi, i licenziamenti intimati nei confronti dei lavoratori domestici, così come espressamente previsto dall’art. 4 co.1 della L. 108/1990, nonché il licenziamento intimato al lavoratore durante il periodo di prova, così come previsto dall’art.10 della L. 604/1966.

 

Le giustificazioni del licenziamento

 In relazione alle ragioni per le quali viene intimato il licenziamento, si distinguono i licenziamenti:

  • per giusta causa;
  • per giustificato motivo soggettivo;
  • per giustificato motivo oggettivo.

Il licenziamento per giusta causa viene intimato dal datore di lavoro «qualora si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto» (art. 2119 c.c., il cosiddetto licenziamento “in tronco”). Ricorre il licenziamento per giusta causa quando al lavoratore vengono addebitati comportamenti così gravi da ledere in modo insanabile il rapporto di fiducia tra le parti, impedendo di fatto la prosecuzione, seppur temporanea, del rapporto di lavoro. La Corte di Cassazione, al riguardo, ha più volte ribadito il principio secondo il quale, ai fini della lesione del vincolo fiduciario, non rileva tanto l'entità del danno subito dal datore di lavoro, quanto piuttosto le ripercussioni che il fatto contestato possono avere sulla prosecuzione del rapporto di lavoro. 

Anche il licenziamento per giustificato motivo soggettivo viene intimato a seguito di addebiti disciplinari mossi dal datore di lavoro. Tuttavia, diversamente dal licenziamento per giusta causa, le motivazioni in questo caso non risultano così gravi da giustificare l’interruzione immediata del rapporto. Di conseguenza, il datore di lavoro ha qui l’obbligo di rispettare un periodo di preavviso prima dell’effettiva risoluzione del rapporto di lavoro. La durata di tale periodo viene definita generalmente dalla contrattazione collettiva e ha lo scopo di permettere al lavoratore di trovare una nuova occupazione.

Tanto il licenziamento per giusta causa quanto quello per giustificato motivo soggettivo, rientrano tra i cosiddetti licenziamenti disciplinari e pertanto, ai fini della loro legittimità, devono essere preceduti dall’avvio di un procedimento disciplinare, il cui iter può essere così sinteticamente descritto:

  • comunicazione obbligatoria del datore al lavoratore del documento in cui viene intimato il licenziamento e vengono spiegate le ragioni; 
     
  • contestazione (possibile) del lavoratore circa le ragioni addotte dal datore; 
     
  • possibilità e scelta del datore sulla base delle contestazioni di confermare o revocare il licenziamento.

In caso di conferma il lavoratore potrà poi contestare il licenziamento qualora lo ritenga illegittimo entro 60 gg dalla comunicazione del licenziamento ed entro 180gg, non cumulabili con i primi, dove depositare il ricorso in cancelleria e comunicare al datore un tentativo di conciliazione.

Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, è invece dettato esclusivamente da ragioni relative all’organizzazione dell’attività imprenditoriale, che possono identificarsi ad esempio nella cessazione dell’attività stessa, nel mutamento dell'assetto organizzativo o la soppressione del posto di lavoro, nonché nella diversa riorganizzazione delle mansioni oppure ancora nell’ammodernamento tecnologico degli impianti da cui deriva una riduzione dei lavoratori impiegati. Secondo la giurisprudenza, ai fini della sussistenza del giustificato motivo oggettivo, è sufficiente che le ragioni inerenti all’attività produttiva e all’organizzazione del lavoro siano tali da determinare un effettivo mutamento dell’assetto organizzativo attraverso la soppressione di un'individuata posizione lavorativa (Cass. n.25201/2016).

 

Cosa s’intende per tentativo obbligatorio di conciliazione? 

L’articolo 7 della Legge n.604/1966, così come modificato dalla cosiddetta Legge Fornero, ha introdotto un tentativo preventivo di conciliazione per i casi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo. I datori di lavoro che occupano alle proprie dipendenze più di 15 dipendenti, in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, devono far precedere il procedimento da una procedura di conciliazione preventiva e obbligatoria davanti alla Commissione provinciale di conciliazione presso l’Ispettorato Territoriale del Lavoro.

Tale procedura viene avviata con l’invio, da parte del datore di lavoro, di una comunicazione scritta all’Ispettorato del Lavoro competente per territorio, nonché al lavoratore interessato. La comunicazione, oltre a rendere nota l’intenzione di procedere al licenziamento, ha il compito di evidenziare le motivazioni che lo hanno determinato, al fine di consentire alla Commissione Provinciale di valutare eventuali misure alternative di ricollocazione o di assistenza alla ricollocazione che il datore potrebbe porre in essere.

La procedura di conciliazione deve concludersi entro 20 giorni dalla ricezione, da parte della Commissione Provinciale di Conciliazione, della comunicazione da parte del datore di lavoro. Il termine è perentorio, fatta salva l'ipotesi in cui le parti, di comune avviso, non ritengano di proseguire la discussione finalizzata al raggiungimento di un accordo. Al termine della procedura, viene redatto un verbale nel quale la Commissione ha l’obbligo di riportare il comportamento complessivo delle parti, nonché le eventuali proposte conciliative formulate.

In caso di raggiungimento dell’accordo conciliativo, anche qualora configuri la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro, è riconosciuto al lavoratore il beneficio della NASpI, la Nuova Assicurazione Sociale per l'Impiego. Nel caso in cui il tentativo di conciliazione abbia avuto esito negativo, il datore di lavoro può procedere al licenziamento del lavoratore.

 

In cosa consistono i licenziamenti collettivi?

L’art. 24 della L. n. 223/91, regola la procedura dei cosiddetti “licenziamenti collettivi”, che si applica alle imprese che occupano più di 15 dipendenti, compresi i dirigenti, e che, in conseguenza di una riduzione o trasformazione di attività o di lavoro, intendono effettuare almeno cinque licenziamenti, nell'arco di centoventi giorni, in ciascuna unità produttiva o in più unità produttive nell'ambito del territorio di una stessa provincia.

L’art. 4 della Legge 223/91 disciplina in particolare i modi e i tempi per avviare la procedura di mobilità. I datori di lavoro che intendano effettuare licenziamenti collettivi sono tenuti a darne comunicazione preventiva per iscritto alle rappresentanze sindacali, nonché alle rispettive associazioni di categoria. La comunicazione dovrà contenere l’indicazione dei motivi che hanno determinato la situazione di eccedenza, i motivi tecnici, organizzativi o produttivi, per i quali si ritiene di non poter adottare misure alternative ai licenziamenti, il numero della collocazione aziendale e dei profili professionali del personale eccedente, l’indicazione dei tempi di attuazione del programma di mobilità, nonché le eventuali misure programmate per fronteggiare le conseguenze sul piano sociale dell’attuazione del programma medesimo.

Entro sette giorni dalla data del ricevimento della comunicazione preventiva, su richiesta delle rappresentanze sindacali aziendali e delle rispettive associazioni, si procede quindi a un esame congiunto tra le parti, il cui scopo è quello di valutare la situazione aziendale che ha portato alla dichiarazione di esubero del personale, al fine di ricercare congiuntamente soluzioni alternative al licenziamento.

La suddetta procedura, la cui durata non deve eccedere il limite di 45 giorni dal suo avvio, può concludersi con il raggiungimento di un accordo tra le parti oppure senza il raggiungimento di un accordo tra le parti. In entrambi i casi, in assenza di soluzioni alternative, il datore di lavoro può comunque procedere al licenziamento dei lavoratori risultanti in esubero.

 

Quali regimi di tutela, a garanzia del lavoratore, in caso di licenziamento illegittimo?

In queste circostanze, è previsto un sistema di tutele differenziato,  le cosiddette “tutela reale” e “tutela obbligatoria”.

La tutela reale - La tutela reale configura un regime in cui in caso di licenziamento illegittimo al lavoratore è riconosciuto il risarcimento integrale del danno derivante, il diritto alla conservazione del posto di lavoro e il pagamento di tutti gli stipendi maturati dalla data del licenziamento a quella della effettiva reintegra.

Per i lavoratori assunti con contratto a tempo indeterminato in data antecedente al 07/03/2015, in caso di licenziamento illegittimo, si applica il regime di tutela previsto dall’art. 18 della L. n. 300/1970, così come modificato dalla L.n. 92/2012, per quelle realtà aziendali che occupino più di 15 dipendenti. Per i datori di lavoro che non superano la suddetta soglia occupazionale, continua ad applicarsi il regime obbligatorio dettato dalla L. n. 604/66. Infine, per i lavoratori assunti con contratto a tempo indeterminato a decorrere dal 07/03/2015, in caso di licenziamento illegittimo, si applica il regime di tutela previsto dal D.Lgs. n. 23/2015.

La tutela obbligatoria (aziende fino a 15 dipendenti, contratti stipulati prima del 7 marzo 2015) - Ai sensi dell’art. 8 della L. n. 604/66, quando risulti accertato che non ricorrono gli estremi del licenziamento per giusta causa o giustificato motivo, il datore di lavoro è tenuto a riassumere il prestatore di lavoro entro il termine di tre giorni o, in mancanza, a risarcire il danno versandogli un'indennità di importo compreso tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 6 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo al numero dei dipendenti occupati, alle dimensioni dell'impresa, all'anzianità di servizio del prestatore di lavoro, al comportamento e alle condizioni delle parti. La misura massima della predetta indennità può essere maggiorata fino a 10 mensilità per il prestatore di lavoro con anzianità superiore ai dieci anni e fino a 14 mensilità per il prestatore di lavoro con anzianità superiore ai venti anni, se dipendenti da datore di lavoro che occupa più di 15 prestatori di lavoro.

La tutela prevista dalla legge sui licenziamenti individuali è detta “obbligatoria” perché non garantisce la conservazione del posto di lavoro né il risarcimento integrale del danno subito per effetto del licenziamento illegittimo, ma soltanto un'indennità nei limiti previsti dalla legge. La scelta, invece, di eventuale riassunzione del lavoratore (con contratto ex novo) è assegnata al datore di lavoro.

Il regime di tutela ai sensi dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori - La Legge n.92/2012, nel riformare i regimi di tutele previsti nei casi di licenziamento illegittimo, ha ridefinito il campo di intervento dell’art.18 della Legge 300/70, introducendo il principio di gradualità delle tutele. La legge n. 92/2012, infatti, è intervenuta nell’ambito della “flessibilità in uscita”, prevedendo differenti regimi di tutela non più legati al solo requisito dimensionale, bensì alle motivazioni che hanno portato al licenziamento, individuando diverse forme di tutele differenti e graduali:

  • Tutela reale piena - Ai sensi del primo comma dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, in caso di licenziamento dichiarato nullo perché discriminatorio ai sensi dell'articolo 3 della Legge 11 maggio 1990, n. 108 (ovvero intimato in concomitanza col matrimonio ai sensi dell'articolo 35 del codice delle pari opportunità tra uomo e donna, di cui al decreto legislativo 11 aprile 2006, n. 198, o in violazione dei divieti di licenziamento di cui all'articolo 54, commi 1, 6, 7 e 9, del Testo Unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, di cui al decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151, e successive modificazioni, ovvero riconducibile ad altri casi di nullità previsti dalla legge o determinato da un motivo illecito determinante ai sensi dell'articolo 1345 del codice civile), al lavoratore è riconosciuta la c.d. tutela reale “piena”, rappresentata dal diritto alla conservazione del posto di lavoro e dal diritto al risarcimento del danno subito, corrispondente all’ultima retribuzione globale di fatto calcolata dal giorno del licenziamento sino alla effettiva reintegra.
  • Tutela reale debole - L’art. 18 c. 4 della Legge n. 300/1970, per il caso del licenziamento ingiustificato, stabilisce che il giudice, accertato che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa, addotti dal datore di lavoro per insussistenza del fatto contestato, oppure perché il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi o dei codici disciplinari applicabili, annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione nel posto di lavoro e al pagamento di un’indennità risarcitoria commisurata all'ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell'effettiva reintegrazione. La misura dell’indennità risarcitoria però, al contrario di quanto previsto per il licenziamento illegittimo, e perciò dichiarato nullo, non può essere superiore a dodici mensilità della retribuzione globale di fatto.
  • Tutela indennitaria - Al di fuori delle ipotesi tassative previste in tutti gli altri casi in cui il giudice accerta che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro, l’art. 18 c. 5 della Legge n. 300/1970 prevede la risoluzione del rapporto di lavoro con effetto dalla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata tra un minimo di dodici e un massimo di ventiquattro mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto. Nel caso di vizi di natura esclusivamente formale, è disposto un sistema indennitario identico per applicazione e princìpi, ma dimezzato negli importi: tra un minimo di sei e un massimo di dodici mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto.

Le "Tutele crescenti" -  Il regime di tutela per i licenziamenti illegittimi per i lavoratori assunti con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato a partire dal 7 marzo 2015, è regolato dal D.Lgs. n.23/2015, che prevede una tutela differenziata in ragione della individuata gravità del motivo che ha indotto il licenziamento, che si riveli illegittimo o ingiustificato.

 

Cosa succede dunque in caso di licenziamenti illegittimi o ingiustificati?

Il licenziamento discriminatorio, nullo o orale è sanzionato con la tutela reale, sostanzialmente simile a quella nota e regolata dall’art. 18 dello Statuto dei lavoratori. Ai sensi dell’art. 2 del D.Lgs. n. 23/2015, il lavoratore ha diritto alla conservazione del posto di lavoro ed è risarcito con il riconoscimento dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, per tutto il periodo intercorrente tra il licenziamento e l’effettiva ricollocazione nel posto di lavoro precedentemente occupato, in una misura comunque non inferiore a cinque mensilità. Anche il D.lgs. n. 23/2015 riconosce al lavoratore la facoltà di optare per l’indennità alternativa alla reintegra, nella misura delle quindici mensilità, precisando che dal momento in cui il lavoratore comunica tale sua scelta, il rapporto di lavoro deve intendersi definitivamente cessato.

L’art. 3 co. 1 del D.Lgs. n. 23/2015 si occupa invece di stabilire il regime sanzionatorio del licenziamento ingiustificato, non sorretto cioè da giusta causa o giustificato motivo, ma comunque non ascrivibile al più grave addebito dei fini discriminatori o ritorsivi. In questo caso è prevista l’estinzione del rapporto di lavoro, facendo accedere il lavoratore ad una tutela meramente indennitaria, individuata nell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, nella misura di due mensilità per ogni anno di servizio. Tale indennità non è soggetta a contribuzione previdenziale e non può essere inferiore a sei mensilità o superiore a trentasei, secondo quanto modificato e disposto dal successivo decreto legge 12 luglio 2018, n.87 (quattro - ventiquattro mesi la "forbice" prevista dalla normativa originaria). Lo stesso regime indennitario è previsto dall’art. 4 per i vizi formali e procedurali, individuati nell'omessa indicazione dei motivi del licenziamento e nella violazione del procedimento disciplinare. Le poste risarcitorie risultano però in questi casi inferiori: una mensilità per anno di servizio, per un minimo di due ed un massimo di dodici.

Attenzione! La sentenza 194/2018 della Corte Costituzionale ha in reatà dichiarato illegittimo l'articolo 3, comma 1, del Decreto legislativo n. 23/2015 sul contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti (Jobs Act), nella parte che determina in modo rigido l'indennità spettante al lavoratore ingiustificatamente licenziato: secondo la Consulta, infatti, «la previsione di un’indennità crescente in ragione della sola anzianità di servizio del lavoratore» sarebbe «contraria ai principi di ragionevolezza e di uguaglianza e contrasta con il diritto e la tutela del lavoro sanciti dagli articoli 4 e 35 della Costituzione». Sono pertanto attesi ulteriori interventi normativi a riguardo. Nel frattempo, premesso che la sentenza non può avere valore retroattivo, per i contenziosi ancora in essere i giudici sono di fatto chiamati a valutare caso per caso. 

La tutela reale “speciale” -  Il secondo comma dell’art. 3 prevede poi una speciale ipotesi in cui è riconosciuto il diritto alla conservazione del posto di lavoro, ma soltanto in caso di insussistenza del fatto materiale contestato, dimostrazione la cui prova in giudizio è posta a carico del lavoratore. Al diritto alla conservazione del posto di lavoro non si accompagna però – come invece accade per il licenziamento nullo – il riconoscimento del risarcimento integrale del danno, ma un ristoro indennitario, sempre parametrato alla retribuzione utile per il calcolo del trattamento di fine rapporto, che però non può essere superiore nella sua misura alle dodici mensilità.
 

 

COVID-19 e lo stop ai licenziamenti “economici”

Il decreto Sostegni bis interviene sul tema del blocco di licenziamenti – individuali e collettivi - per motivi economici introdotto a seguito della pandemia da nuovo coronavirus, stabilendone in linea generale la cessazione al 30 giugno 2021. Vengono tuttavia stabilite delle eccezioni:

  • per i datori di lavoro che, dall’1 luglio, ricorrano a CIGO o CIGS con esenzione dal contributo aggiuntivo;
     
  • dall’1 luglio al 31 ottobre per i datori di lavoro destinatari del FIS, di cassa integrazione in deroga o fondi di solidarietà bilaterale. 


Il divieto non si applica poi in caso di: cessazione definitiva dell'attività dell'impresa o di rami dell’azienda; cessazione conseguente alla messa in liquidazione della società senza continuazione, neppure parziale, dell'attività, a condizione che non si configuri l’eventualità di un trasferimento d'azienda o di un ramo di essa; stipula di un accordo di esubero collettivo aziendale con le organizzazioni sindacali di riferimento, a condizione che l’adesione dei singoli lavoratori (con relativo incentivo alla risoluzione del rapporto di lavoro) sia volontaria; fallimento, quando non sia previsto l'esercizio provvisorio dell'impresa o ne sia disposta la cessazione.

 

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