Previdenza complementare, uno strumento per guardare lontano

 Nonostante iscrizioni in crescita, il quadro delle adesioni alla previdenza complementare in Italia può definirsi in chiaroscuro: dati alla mano, le categorie più restie a rivolgersi ai fondi pensione sono proprio quelle che avrebbero maggiormente bisogno di una copertura integrativa  

La previdenza complementare è uno strumento di welfare a disposizione dei cittadini per sopperire alla riduzione delle prestazioni offerte dal sistema previdenziale pubblico.  A partire dagli anni Novanta il sistema pensionistico italiano è infatti andato incontro ad alcune profonde modificazioni che, se da una parte, si sono rese necessarie per tutelarne la sostenibilità, dall’altra hanno reso i trattamenti pensionistici meno “generosi” di quanto non fossero in passato. 

Di qui, la sempre più avvertita esigenza di dotarsi di una “pensione di scorta” attraverso l’adesione a una forma pensionistica integrativa. 

Figura 1 – Cos’è e a cosa serve la previdenza complementare

Figura 1 – Cos’è e a cosa serve la previdenza complementare

Fonte: Guida alla Giornata Nazionale della Previdenza e del Lavoro, Itinerari Previdenziali 

Aderire alla previdenza complementare significa accantonare regolarmente una parte dei risparmi accumulati nel corso della propria vita lavorativa così da costruirsi una pensione aggiuntiva rispetto a quella corrisposta dalla previdenza obbligatoria: un vero e proprio “salvadanaio previdenziale”, alla cui costruzione si può concorrere anche attraverso versamenti di importi relativamente contenuti ma costanti nel tempo. Le somme così versate vengono dunque investite sui mercati finanziari, in modo da ricavare rendimenti che accrescano il capitale iniziale (o quantomeno lo preservino dall’erosione dell’inflazione) e rendersi disponibili in vecchiaia nella forma di risorse utili a ottenere una pensione integrativa o di secondo pilastro, che possa affiancare e integrare per l’appunto quella pubblica, detta anche di primo pilastro. 

In altre parole, la previdenza complementare è a tutti gli effetti una forma di risparmio di lungo periodo, che offre innanzitutto la possibilità di disporre di una rendita integrativa alla pensione pubblica e, quindi, di affrontare con maggiore serenità l’età della quiescenza e il momento dell’uscita dal mercato del lavoro. A dispetto del nome, tuttavia, non serve esclusivamente a costruirsi una seconda pensione da affiancare a quella pubblica, ma prevede anche una serie di prestazioni che consentono di accedere al capitale accumulato, o quantomeno a parte di esso, anche prima del pensionamento: ad esempio, le somme versate al fondo pensione possono essere utilizzate per sé e per la propria famiglia in caso di difficoltà di salute, perdita del lavoro, acquisto della prima casa o altre necessità (come spese impreviste) che possano obbligare ad attingere in anticipo al proprio “salvadanaio”. 

 

I numeri della previdenza complementare in Italia e il ritratto dell’aderente tipo 

Con la premessa che l’adesione a una forma pensionistica integrativa è, pur con qualche distinguo ed eccezione, libera e volontaria, secondo l’ultima Relazione Annuale COVIP, nel 2022 le 332 forme pensionistiche complementari accessibili nel nostro Paese contavano 9,240 milioni di iscritti, il 5,4% in più rispetto al 2021 e pari al 36,2% della forza lavoro (occupati + individui con almeno 15 anni di età in cerca di occupazione). Le risorse complessivamente destinate alle prestazioni totalizzavano 205,6 miliardi di euro, il 3,6% in meno rispetto al 2021: un valore pari al 10,8% del PIL e al 4% di tutte le attività finanziarie delle famiglie italiane.  È però l’analisi trasversale dei dati relativi agli iscritti ai fondi pensione a offrire alcune delle informazioni più interessanti in termini di efficacia della copertura complementare: conoscere le caratteristiche socio-demografiche della platea degli aderenti consente infatti di capire se il profilo che ne emerge corrisponde anche a quello dei soggetti che più sarebbero bisognosi dei sistemi di previdenza integrativa e, di conseguenza, anche di riflettere sull’effettiva diffusione dello strumento e sulle possibili strategie da utilizzare per incentivare, o meglio indirizzare, le adesioni.

Per quanto riguarda l’età degli iscritti, dai dati COVIP emerge una media di 47 anni. Su oltre 9 milioni di aderenti, solo il 18,8% ha meno di 35 anni mentre il 48,9% appartiene alla fascia di età centrale (35-54 anni) e il 32,3% ha almeno 55 anni. In particolare, dal 2018 al 2022 si è assistito a un progressivo spostamento dalle classi di età centrali a favore di quelle più anziane, pari a circa cinque punti percentuali; la classe più giovane (sotto i 35 anni di età) ha registrato una crescita di 1,1 punti percentuali. È d’altra parte vero che le fasce d’età più giovani partecipano in misura minore al mercato del lavoro, tuttavia anche una volta parte delle forze di lavoro, la fascia di età più giovane fa registrare una partecipazione alla previdenza complementare del 26,5% contro il 32,1% della fascia immediatamente più anziana: un dato destinato appunto a far riflettere se si tiene conto del fatto che, tendenzialmente, prima si aderisce alla previdenza complementare maggiori sono i benefici che si ottengono, dal punto di vista tanto del capitale accumulato quanto della fiscalità. Facile immaginare che le ragioni di questo paradosso siano anche di tipo culturale e siano da ricercarsi, da un lato, nella convinzione di una disponibilità economica fin troppo modesta da consentire di destinare anche solo una piccola parte del proprio guadagno al risparmio previdenziale e, dall’altro, nella tendenza a non preoccuparsi troppo di tematiche percepite lontane, come appunto la pensione. 

Sul versante del genere, va invece considerato come le donne abbiano mediamente carriere più discontinue rispetto a quelle degli uomini, motivo per cui sarebbe ancora più vantaggioso per loro iscriversi alla previdenza complementare. Eppure, nonostante l’evidenza rifletta in larga misura le differenze di genere nella partecipazione al mercato del lavoro, gli iscritti di sesso maschile rappresentano il 61,8% del totale degli aderenti e le donne il 38,2%, con una proporzione che si mantiene simile nelle diverse fasce di età, ad eccezione della classe che raggruppa gli iscritti con meno di 20 anni, formata soprattutto da familiari a carico, nella quale le donne raggiungono il 45,5%. In questo caso, nonostante un quadro che dovrebbe stimolare le iscrizioni delle donne, la propensione all’adesione femminile anche una volta entrate nella forza lavoro risulta del 7% inferiore rispetto a quella degli uomini.

La fotografia relativa alla condizione professionale evidenzia infine tra gli aderenti 6,7 milioni di lavoratori dipendenti, che si concentrano perlopiù (come forse prevedibile) nei fondi negoziali e preesistenti, e 1,17 milioni di lavoratori autonomi, per la quasi totalità iscritti a PIP “nuovi” e fondi pensione aperti. Sono invece circa 1,4 milioni gli “altri iscritti”, vale a dire gli aderenti non lavoratori, come ad esempio soggetti fiscalmente a carico, e così via. Ancora una volta, dunque, i numeri sono a sfavore di quanti in futuro potrebbero necessitare di una pensione di scorta, vale a dire i lavoratori autonomi, che con un’aliquota contributiva pari al 24% tenderanno ad avere in prospettiva tassi di sostituzione più bassi – e assegni pensionistici meno pesanti – di quelli dei dipendenti. 

Di qui, allora, la necessità sempre più stringente di campagne informative volte a favorire l’adesione dei soggetti più "a rischio", tra cui donne e giovani, oltre a consigliare al meglio ai soggetti già iscritti alla previdenza complementare circa le proprie scelte di investimento.

 

 

Non solo educazione previdenziale… 

Come emerge dall’Undicesimo Rapporto sul Bilancio del Sistema Previdenziale italiano curato dal Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali, nel 2022 (ultimo anno disponibile) l’Italia ha destinato al welfare più della metà dell’intera spesa statale. Una percentuale che, trascinata soprattutto da una spesa assistenziale a carico della fiscalità generale in continuo aumento (dal 2008 l’incremento strutturale è stato di oltre 41 miliardi, e di 3 volte superiore a quello della spesa per pensioni), colloca il nostro Paese ai vertici delle classifiche mondiali, sfatando peraltro il consolidato luogo comune secondo il quale si spenderebbe poco per le prestazioni sociali.

Pochi dati che rendono evidente anche a livello di sistema la necessità di valorizzare maggiormente il pilastro complementare, come parte indispensabile del sistema di protezione sociale del Paese. Tanto più che, con un PNRR da destinare a ripresa e sviluppo nel segno della transizione ecologica e digitale, considerando le sempre minori risorse pubbliche disponibili, l’enorme debito pubblico e la transizione demografica, la previdenza complementare è da ritenersi ormai uno strumento indispensabile non solo per i lavoratori italiani ma anche per lo sviluppo del Paese. Insomma, da una parte un contributo essenziale per garantire una buona rendita al momento della pensione e, dall’altra, un “ponte” in termini di occupazione e crescita da qui al 2035/40, quando il tasso di disoccupazione dovrebbe essere prossimo al 4%, con salari e redditi in aumento, grazie alla ripresa 

Che fare quindi? Un nuovo semestre di silenzio-assenso, il ripristino del fondo garanzia per le PMI, incentivi per gli investimenti green e in economia reale domestica, una riforma fiscale che riporti all’11% (o anche meno) la fiscalità sui rendimenti, insieme a maggiori iniziative di alfabetizzazione previdenziale e finanziaria, le possibili proposte su cui concentrarsi per ridare nuovo e necessario impulso ai fondi pensione e al welfare complementare. 

 

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