Invecchiamento, come affrontare il rischio della non autosufficienza?

Il progressivo allungamento della vita media ma anche la diffusione di malattie croniche o fatti di stretta attualità sanitaria come la pandemia di COVID-19 obbligano a fare i conti con i rischi connessi alla non autosufficienza: le coperture offerte dal welfare pubblico e quelle complementari della Long Term Care

Benché al momento tra gli operatori sia ancora acceso il dibattito su una definizione pienamente condivisa, è possibile definire come non autosufficienti tutte quelle persone che, a causa di malattie croniche, dell’età o di altre limitazioni psico-fisiche, necessitano di assistenza in modo continuato. In ogni caso, punto centrale della questione è l’incapacità di svolgere autonomamente alcune delle più elementari azioni quotidiane (ad esempio, camminare, vestirsi, etc) indipendentemente dalla causa scatenante, che può essere tanto un evento infortunante o una malattia quanto una condizione strettamente legata all’anzianità del singolo soggetto. 

Non per forza quindi, la condizione di non autosufficienza è legata all’età, ma è comunque indubbio che il progressivo invecchiamento della popolazione rende il tema di estrema attualità, ancor di più nel caso dell’Italia, che con una speranza di vita a 65 anni (pari nel 2021) a 18,6 anni per gli uomini e le 21,9 per le donne ci colloca tra i Paesi più longevi al mondo.  Vivere di più non significa però necessariamente vivere meglio: secondo l’ultima indagine Istat sullo stato di salute degli anziani, nel 2019 e quindi prima della pandemia, circa un terzo degli over 75 presenta una grave limitazione dell’autonomia che, per un anziano su 10, incide sia sulle attività quotidiane di cura personale che su quelle di vita domestica (8,5% nell’UE22). Nel dettaglio, sono circa 3 milioni e 860mila gli anziani con gravi difficoltà nelle attività funzionali di base (il 28,4% della popolazione di 65 anni e più): 2 milioni 833mila (20,9%) hanno gravi difficoltà nel camminare, salire o scendere le scale senza l’aiuto di una persona o il ricorso ad ausili, 1 milione 874mila (13,8%) riferiscono gravi difficoltà nell’udito o nella vista anche con l’uso di ausili, 1 milione e 113mila (8,2%) hanno gravi difficoltà nella memoria o nella concentrazione. 

Numeri che lasciano facilmente intuire anche i possibili impatti socio-economici della non autosufficienza: attualmente, l’onere pubblico per la LTC è stimabile in una cifra pari a circa l’1,9% del PIL ma, secondo le previsioni della Ragioneria Generale dello Stato, la spesa pubblica per non autosufficienza potrebbe pesare da qui al 2070 – a seconda degli scenari – fino al 2,4%. 

 


Quali tutele da parte dello Stato? Indennità di accompagnamento e RSA

Premessa indispensabile a farsi è che, quando si parla di non autosufficienza, il fine di tutti gli interventi sanitari e socio-assistenziali non è normalmente la guarigione, spesso impossibile, bensì il mantenimento della migliore condizione possibile di salute e di benessere psico-fisico del paziente, considerandone dunque bisogni globali e contesto di riferimento (realtà familiare, etc). In quest’ottica, al momento, lo Stato italiano interviene a sostegno delle persone non autosufficienti con diverse tipologie e livelli di sostegno che, di fatto, coinvolgono tanto le amministrazioni centrali quanto gli Enti locali.

In particolare, si ricordano: 1) l’indennità di accompagnamentoprestazione economica erogata dall’INPS ai soggetti invalidi o mutilati, cui sia stata riconosciuta una condizione di non autosufficienza e, in particolare, di cui sia stata accertata l’impossibilità di deambulare senza l’aiuto di un accompagnatore e/o l’incapacità di compiere i principali atti di vita quotidiana autonomamente, in assenza di assistenza continua; 2) l’assistenza socio-sanitaria, delegata alle Regioni, che prevede l’assistenza residenziale agli anziani e ai disabili, l’assistenza non-residenziale (strutture semi-residenziali e assistenza domiciliare) e l’assistenza rivolta ai soggetti affetti da dipendenze (alcolisti e tossicodipendenti) o patologie psichiatriche. In questo caso, dunque, la prestazione consiste nell’erogazione di servizi per il tramite del SSN, indipendente dall’età e dal reddito. I criteri di valutazione dello stato di non autosufficienza per accedere alle diverse prestazioni possono tuttavia differire a livello regionale; 3) le prestazioni socio-assistenziali erogate dagli enti locali territoriali, in prevalenza Comuni, e soggette alla prova dei mezzi.

Attenzione! Le Residenze Sanitarie Assistenziali, più comunemente note come RSA, sono dunque strutture residenziali socio-sanitarie destinate ad accogliere persone anziane non autosufficienti che hanno bisogno di assistenza medica, infermieristica o riabilitativa, generica o specializzata. Non vanno pertanto confuse con le case di riposto, a differenza delle quali è prevista la presenza di un medico 24 ore su 24, un terapista ogni 40 ospiti e un infermiere ogni 5. In altri termini, proprio perché gli ospiti di una RSA non sono nemmeno parzialmente autonomi, viene ritenuta necessaria una costante presenza medica e infermieristica, oltre che un aiuto continuativo nel garantire il regolare svolgimento delle attività quotidiane da parte dei soggetti ospitati. Sul territorio nazionale, alle RSA pubbliche si affiancano anche strutture di tipo privato. Mentre in questa seconda eventualità, l’onere della retta è solitamente a carico dell’ospite o dei suoi familiari (anche in forma intermediata in caso di adesione a una forma di assistenza sanitaria integrativa laddove preveda coperture per la Long Term Care), l’accesso è normalmente concordato con l’Ufficio dei Servizi Sociali del Comune nell’eventualità di strutture pubbliche. Anche in questo caso, può essere previsto il pagamento di una retta, ma entità e modalità sono generalmente definite sulla base della condizione reddituale e patrimoniale dell’ospite. 

 


I permessi retribuiti ai sensi della legge 104/92

Una menzione particolare spetta invece alla legge 104/92 che, nell’ottica di favorire l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate, istituisce una particolare tipologia di permessi retribuiti che il dipendente che si trovi nella condizione di caregiver può richiedere al proprio datore di lavoro. Più precisamente, la persona che richiede o per la quale si richiede questo tipo di permessi deve trovarsi in una condizione di disabilità particolarmente grave. Nel dettaglio possono fruirne: 

  • disabili in situazione di gravità;
     
  • genitori, anche adottivi o affidatari, di figli disabili in situazione di gravità;
     
  • coniuge, parte dell’unione civile, convivente di fatto, parenti o affini entro il secondo grado di familiari disabili in situazione di gravità. Il diritto si estende anche ai parenti e agli affini di terzo grado soltanto qualora i genitori o il coniuge o la parte dell’unione civile o il convivente di fatto della persona con disabilità grave abbiano compiuto i sessantacinque anni di età oppure siano a propria volta affetti da patologie invalidanti o siano deceduti o mancanti. 


Possono farne poi in ogni caso richiesta solo i lavoratori dipendenti, mentre non ne hanno diritto lavoratori domestici o a domicilio, lavoratori agricoli a tempo determinato autonomi e parasubordinati. In tutti i casi, la condizione invalidante o di non autosufficienza deve essere riconosciuta a mezzo di appositi accertamenti sanitari. Poiché i permessi, totalmente a carico dell’INPS, sono pensati per fornire cure e assistenza, non è possibile farne richiesta nel caso in cui il disabile grave sia ricoverato a tempo pieno presso strutture ospedaliere, RSA o affini. 

Una volta concessi, i permessi retribuiti ai sensi della legge 104/92 si traducono, per il lavoratore disabile, in tre giorni riposo al mese, anche frazionabili in ore o, in alternativa, in riposi orari giornalieri di una o due ore (a seconda del numero di ore effettivamente lavorate. Nel caso dei caregiver, occorre invece distinguere sulla base dell’età dell’assistito (qui, l’elenco completo); a ogni modo, nel caso di genitori, coniuge, parte dell’unione civile, convivente di fatto, parenti e affini della persona in situazione di gravità, spettano tre giorni di permesso mensile, anche frazionabili in ore. 

 


Il Fondo Nazionale per le non autosufficienze 

Tra gli interventi dello Stato a favore della non autosufficienza, occorre poi necessariamente citare anche il Fondo nazionale per la non autosufficienza istituito con la legge 296/2006, con l’obiettivo di fornire sostegno ad anziani non autosufficienti e persone affette da condizioni invalidanti particolarmente gravi. A tal fine, il Fondo eroga dunque risorse aggiuntive rispetto a quelle già destinati alla copertura dei costi delle prestazioni economiche, sanitarie e socio-assistenziali erogate per il tramite di INPS, SSN, Regioni ed enti locali, risorse indirizzate per garantire su tutto il territorio nazionale dei livelli essenziali delle prestazioni assistenziali e, nello specifico, per favorire – dove possibile – una dignitosa permanenza del soggetto non autosufficienza presso il proprio domicilio o, comunque, interventi innovativi in materia di vita indipendente, così da evitare l’istituzionalizzazione. Con  l'intento di razionalizzare, semplificare e creare un quadro coerente delle politiche di settore,  la Legge di Bilancio 2020 ha poi istituito un ulteriore fondo a carattere strutturale denominato "Fondo per la disabilità e la non autosufficienza", con una dotazione di  200 milioni di euro per il 2021 e di 300 milioni di euro annui a decorrere dal 2022, cui l’ultima manovra finanziaria ha attribuito la rinnovata denominazione di "Fondo per le politiche in favore delle persone affette da disabilità", incrementando la dotazione di 50 milioni di euro per ciascuno degli anni dal 2023 al 2026. Non da ultimo merita infine di essere citato il PNRR, che dovrebbe stanziare più di 7 miliardi di euro per il sostegno agli anziani non autosufficienti per il periodo 2022-2026.

Rispetto ad altri Paesi europei, l’Italia resta tuttavia in ritardo nel riformare il sistema di servizi pubblici destinati in particolar modo alle persone anziane non autosufficienti: come evidenziato dai player del settore,  e recentemente posto in ulteriormente evidenza da COVID-19, le risposte ai problemi posti dal progressivo invecchiamento della popolazione risultano attualmente inadeguate sia sotto il profilo quantitativo che quantitativo, scontando il peso di una forte frammentazione dei diversi interventi (con conseguente rischio di inappropriatezza delle prestazioni e dispersione delle risorse). Difficoltà cui si aggiungono, da un lato, l’impossibilità di continuare a incrementare la spesa pubblica dedicata al welfare, che già assorbe il 54% dell’intera spesa statale e, dall’altro, un welfare familiaro sempre più debole nell’affrontare la sfida della non autosufficienza per varie ragioni: atomizzazione delle famiglie, difficoltà nel conciliare vita privata e lavoro, riduzione delle realtà abitative nei maggiori centri urbani.  

Di qui, l’importanza innanzitutto di un nuovo approccio culturale, che metta al centro del sistema non solo la “malattia”, quanto piuttosto la persona e il suo progetto di cura e di vita nel complesso, tenendo conto tanto dell’aspetto clinico quanto del contesto economico, ambientale e familiare in cui si colloca il paziente non autosufficiente.  E, in seconda battuta (ma non per ordine di importanza), anche di un approccio multidimensionale e integrato, che metta cioè a fattor comune l’attività e l’esperienza di tutti i soggetti coinvolti (servizi sanitari e sociali, professionisti coinvolti nella pianificazione e dell’erogazione dell’assistenza, etc) affinché sia possibile pervenire alla costruzione di percorsi diagnostico-terapeutici assistenziali – in gergo tecnico, PDTA – personalizzati e dinamici, in una logica di accompagnamento e non solo di cura. D’altra parte, per ridurre costi e impatti della non autosufficienza per i nuclei familiari (ma anche per il primo pilastro) ancor più fondamentali si rivelano in quest’ambito le possibili sinergie tra pubblico e privato. In quest’ottica, in particolare, mutualità e assicurazioni possono senza dubbio contribuire a ripartire rischi e bisogni correlati alla non autosufficienza, a vantaggio del singolo ma anche della collettività. 

 


Il ruolo del privato: assistenza sanitaria integrativa e polizze assicurative Long Term Care

Se, da un lato lo Stato ha evidenti difficoltà nell’incrementare la propria spesa dedicata al welfare, dall’altro anche il welfare familiare si rivela sempre più debole nell’affrontare la sfida della non autosufficienza per varie ragioni: atomizzazione delle famiglie, difficoltà nel conciliare vita privata e lavoro, riduzione delle realtà abitative nei maggiori centri urbani.  

Di qui, l’importanza innanzitutto di un nuovo approccio culturale, che metta al centro del sistema non solo la “malattia”, quanto piuttosto la persona e il suo progetto di cura e di vita nel complesso, tenendo cioè conto tanto dell’aspetto clinico quanto del contesto economico, ambientale e familiare in cui si colloca il paziente non autosufficiente.  E, in seconda battuta (ma non per ordine di importanza), anche di un approccio multidimensionale e integrato, che metta cioè a fattor comune l’attività e l’esperienza di tutti i soggetti coinvolti (servizi sanitari e sociali, professionisti coinvolti nella pianificazione e dell’erogazione dell’assistenza, etc) affinché sia appunto possibile pervenire alla costruzione di percorsi diagnostico-terapeutici assistenziali – in gergo tecnico, PDTA – personalizzati e dinamici, in una logica di accompagnamento e non solo di cura.

D’altra parte, per ridurre costi e impatti della non autosufficienza per i nuclei familiari (ma anche per il primo pilastro) ancor più fondamentali si rivelano in quest’ambito le possibili sinergie tra pubblico e privato. In quest’ottica, in particolare, mutualità e assicurazioni possono senza dubbio contribuire a ripartire rischi e bisogni correlati alla non autosufficienza, a vantaggio del singolo ma anche della collettività. Quali gli strumenti percorribili?

Non ancora particolarmente diffuse, pur a fronte di un aumento del rischio di non autosufficienza, sono le cosiddette polizze assicurative Long Term Care (LTC), che proteggono dal rischio temporaneo o definitivo di perdita di autosufficienza, intesa per l’appunto come perdita della capacità di svolgere le più semplici attività di vita quotidiana, non necessariamente dovuta a malattia o infortunio, ma imputabile anche a senescenza. In particolare, le azioni elementari utili anche ai fini della stipula del contratto sono normalmente individuate secondo il metodo Activities of Day Living (ADL) sono:

  • lavarsi
     
  • vestirsi e spogliarsi
     
  • utilizzare i servizi
     
  • muoversi, spostarsi dal letto alla poltrona e viceversa
     
  • alimentarsi
     
  • capacità di controllo della continenza


La misura minima delle ADL mancanti per la definizione di non autosufficienza può in ogni caso variare da contratto a contratto, anche nel caso di assicurazioni collettive. Semplificando, le coperture più diffuse possono essere di due diverse tipi. Nel primo caso, probabilmente quello più noto, si segue il cosiddetto modello “ad accumulo”, che consente appunto di accumulare risparmi in un fondo speciale: al presentarsi della condizione di non autosufficienza, all’assicurato viene quindi garantita l’erogazione del capitale o una tantumo nella forma di rendita vitalizia, resa per tutto il tempo in cui l’assicurato resta nella condizione di non autosufficienza e di entità commisurata a quanto accumulato fino a quel momento. Proprio per questo, la rendita viene attivata solo dopo che la compagnia di assicurazione ha avuto modo di accertare lo stato di non autosufficienza dell’assicurato e perdura a suo beneficio al permanere della condizione di non autonomia, anche vita natural durante quando necessario. Nel secondo caso, che segue invece il cosiddetto modello “a ripartizione”, la sottoscrizione della polizza implica che, una volta accertata la non autosufficienza, sia la compagnia a farsi carico delle eventuali spese socio-assistenziali – fino al massimale prestabilito – per tutto il perdurare della condizione. In un certo senso, si può dunque affermare che in questo caso la polizza non eroga rendite ma servizi, i cui fornitori sono tendenzialmente individuati dalla parte assicuratrice stessa. Meno frequente è il rimborso diretto (totale o parziale) delle spese sanitarie e assistenziali o del costo per l’assistenza, sempre e comunque nei limiti del massimale assicurato. 

Attenzione! In entrambi i casi, rendita o massimale potrebbero comunque rivelarsi non sufficienti alla copertura di tutte le spese per la non autosufficienza, che la parte assicuratrice non è del resto tenuta a garantire. 

La sottoscrizione di polizze LTC è comunque fiscalmente agevolata. In particolare il Decreto del Ministero delle Finanze del 22 dicembre 2000 estende anche alla Long Term Care la detrazione d’imposta del 19% sui premi versati, fino a un massimo di 1.291 euro l’anno (somma che fa comunque vita con quella delle altre assicurazioni detraibili). Non necessariamente, la copertura LTC viene però fornita in via autonoma: può essere ad esempio associata ad altre coperture assicurative o a forme di previdenza complementare e di assistenza sanitaria integrativa. In questo caso, la normativa prevede tuttavia che la normativa specifica di riferimento sia quella di ciascuna forma previdenziale o assicurativa: in questo caso cioè i contributi versati a un fondo pensione o a un fondo sanitario a fronte di una copertura assicurativa LTC beneficeranno del più favorevole regime di deducibilità dal reddito complessivo o di esclusione dalla formazione del reddito di lavoro dipendente secondo gli ordinari plafond annuali della previdenza complementare e dell’assistenza sanitaria integrativa, pari rispettivamente a 5.164,27 euro e 3.615,20 euro. Una particolare attenzione spetta infine alla Legge di Bilancio per il 2017 che, escludendo dal reddito di lavoro dipendente i premi per prestazioni LTC, ha di fatto gettato le basi per una maggiore diffusione della copertura del rischio di non autosufficienza all’interno dei piani di welfare aziendale. 

Dunque, ciascuno secondo proprio ruolo e modalità, anche Casse di Previdenza, fondi pensione e fondi sanitari possono offrire coperture legate al rischio di non autosufficienza. Mentre alcune Casse prevedono per i propri iscritti l’attivazione automatica, e senza costi aggiuntivi, di una polizza LTC, che, in caso di perdita di autosufficienza, supporta l’iscritto grazie al versamento di un assegno mensile, alcuni fondi pensione permettono di scegliere, al momento del pensionamento, una rendita con l’opzione LTC: la rendita pagata periodicamente dal fondo raddoppia nel caso in cui si verifichino situazioni di non autosufficienza. Un’altra opzione talvolta offerta è quella di attivare, anche prima della maturazione dei requisiti pensionistici, una polizza LTC tra le cosiddette “prestazioni accessorie” che possono essere acquistate separatamente dagli iscritti.Fondi sanitari e società di mutuo soccorso, infine, offrono generalmente prestazioni di Long Term Care ai propri iscritti non autosufficienti secondo due modalità prevalenti: versando delle somme in un’unica soluzione o periodicamente, oppure coprendo direttamente o indirettamente le spese mediche e socio-assistenziali che dovrebbero esser sostenute dall’iscritto.

 


La tecnoassistenza: app device per l’assistenza sanitaria

Nel dibattito su cronicità e non autosufficienza, assume infine in questo periodo un ruolo di primo piano anche la cosiddetta tecnoassistenza, intesa come l’insieme degli interventi sanitari e assistenziali resi possibili dall’impiego delle nuove tecnologie.  Nelle sue diverse componenti (domotica, telemedicina, etc) l’evoluzione tecnologica si presenta infatti come un elemento strategico per migliorare l’adeguatezza delle risposte alle necessità dell’assistito, incrementando le possibilità di permanenza a domicilio, migliorando l’equità nell’accesso delle cure sia in termine di tempo che di tipologie di intervento e, infine, favorendo sul medio-lungo periodo il contenimento della spesa (elevati, viceversa, i necessari investimenti iniziali). Non solo, favorendo la preservazione (e, quando possibile, persino l’incremento) dei livelli di autonomia dell’assistito, l’impiego della tecnoassistenza si traduce generalmente in un maggiore soddisfazione sia dell’assistito sia dei caregiver.

In attesa di eventuali novità legislative, la tecnoassistenza è attualmente adottata solo nell’ambito di progetti sperimentali (generalmente con esiti clinici soddisfacenti o comunque non meno efficaci di quelli prodotti attraverso approcci “più tradizionali”) e non rientra all’interno dei Livelli Essenziali di Assistenza. 

 

 

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