Contratti a termine: come funziona il lavoro a tempo determinato
Durata massima, proroghe, causali e recesso anticipato: come funzionano i "contratti a termine"? Diritti e doveri dei lavoratori a tempo determinato
Caratteristica fondamentale di questo tipo di contratto, che può essere sottoscritto per qualsiasi mansione, è la durata prestabilita. Durata a prescindere dalla quale, il lavoratore a tempo determinato gode degli stessi diritti (e doveri) dei lavoratori a tempo indeterminato parimenti inquadrati per mansione e livello.
A tempo determinato sì, ma per quanto tempo?
Il contratto di lavoro a tempo determinato non può avere una durata superiore ai limiti previsti dalla legge: limiti inizialmente fissati a 36 mesi dal Jobs Act (Decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81) e quindi portati a un massimo di 24 mesi per i contratti siglati successivamente all'entrata in vigore del cosiddetto Decreto Dignità. Laddove la soglia venga superata, sia per effetto di un unico contratto sia in conseguenza di una successione di contratti (pari livello o stessa mansione), il contratto diventa - a partire dalla data di superamento - a tempo indeterminato.
In altri termini, stando alla normativa vigente, la durata di un rapporto di lavoro a tempo determinato tra lo stesso datore e lo stesso dipendente - sia che avvenga a mezzo di un unico contratto sia per effetto di una successione di contratti/rinnovi riguardanti mansioni di pari livello o categoria - non può in alcun modo superare i 24 mesi (se non con l'eccezione delle attività stagionali o quando in presenza di diverse disposizioni nei contratti collettivi. Fermo restando il limite massimo, un ulteriore contratto a tempo determinato tra gli stessi soggetti (valido per non più di 12 mesi) può comunque essere stipulato presso la Direzione territoriale del lavoro; anche in questo caso, tuttavia, il mancato rispetto della corretta procedura così come il superamento del termine massimo stabilito implica che il rapporto si trasformi automaticamente in un contratto a tempo indeterminato a partire dalla data stessa di stipulazione.
Ulteriore limite riguarda numero ed entità delle proroghe: sempre restando nell'arco dei 24 mesi, il termine finale del contratto non può essere prorogato più di 4 volte. Il Decreto Dignità ha infatti abbassato da 5 a 4 il numero massimo di rinnovi, precisando che la nuova disposizione si applica ai soli contratti a termine stipulati successivamente alla data di entrata in vigore della nuova normativa, così come ai rinnovi e alle proroghe dei contratti in corso alla stessa data. In caso di numero superiore di proroghe, il contratto diventa a tempo indeterminato a partire dalla decorrenza della quinta proroga. Previste in ogni caso alcune eccezioni, come quelle riguardanti le Pubbliche Amministrazioni, per le quali continuerà ad applicarsi la normativa precedente al Decreto. Va poi comunque precisato che, in realtà, il rapporto di lavoro può perdurare - con maggiorazione della retribuzione - anche dopo la scadenza inizialmente fissata o successivamente prorogata:
- per un massimo di 30 giorni nel caso di contratti la cui durata iniziale fosse inferiore a 6 mesi;
- per un massimo di 50 giorni in tutti gli altri casi.
In ogni caso, il datore deve corrispondere al lavoratore una maggiorazione della retribuzione complessiva pari al 20% fino al decimo giorno successivo alla scadenza, e pari al 40% per ogni giorno ulteriore. Se si proseguisse anche oltre questi termini, il contratto sarà invece da considerarsi a tempo indeterminato a tutti gli effetti.
Dimissioni e licenziamento
Altra fondamentale differenza tra contratti a tempo determinato e indeterminato riguarda poi dimissioni e licenziamento: il tempo determinato non prevede il recesso anticipato, il che implica che il rapporto di lavoro può essere chiuso prima della sua naturale scadenza solo in 2 circostanze: o per accordo di entrambe le parti o per giusta causa (cioè per un fatto talmente grave da non consentire la prosecuzione, neppure provvisoria, del rapporto di lavoro). Non è invece possibile il licenziamento per giustificato motivo. Un eventuale licenziamento non riconducibile alla giusta causa implica quindi, da parte del datore di lavoro, un risarcimento del danno, pari a tutte le retribuzioni che gli sarebbero state corrisposte nel caso in cui il rapporto fosse proseguito fino al termine originariamente prefissato (viene però dedotto quanto eventualmente percepito dal dipendente lavorando presso un altro datore nel periodo considerato).
I limiti per le aziende e la (re)introduzione della causale
Per impedire alle aziende di "abusare" del contratto a tempo determinato, questa modalità di assunzione non è ammessa:
1) per sostituire lavoratori in sciopero;
2) presso le unità produttive che abbiano effettuato licenziamenti collettivi nei 6 mesi precedenti l'assunzione, salvo casi specificatamente indicati dalla legge;
3) presso le unità produttive in cui sono operanti sospensioni o riduzioni dell'orario in regime di CIG;
4) per i datori non in regola con la normativa in materia di sicurezza sul lavoro.
Non solo, a favore del dipendente a tempo determinato (con contratto a termine presso la stessa azienda per un periodo superiore ai sei mesi), la legge prevede il diritto di precedenza per le assunzioni a tempo indeterminato per mansioni equivalenti. Il diritto di precedenza si esercita con modalità peculiari nel caso delle attività stagionali, ma resta sempre valido il principio per cui si estingue trascorso l'anno dalla cessazione del rapporto di lavoro.
In aggiunta, a ciascun datore di lavoro è poi concesso di stipulare un numero complessivo di contratti a tempo determinato che non può eccedere il 20% del numero dei lavoratori a tempo indeterminato in forza al primo gennaio dell'anno di assunzione. Viene comunque concessa un'assunzione in caso di PMI che occupino un massimo di 5 dipendenti. In ogni caso, però, anche a questo tetto "massimo" sono associate delle deroghe, riguardanti ad esempio i contratti collettivi, per i quali è prevista la facoltà di individuare limiti quantitativi differenti, e le agenzie per il lavoro che si avvalgano di contratti a tempo determinato in regime di somministrazione.
Un'ulteriore novità apportata dal Decreto Dignità ha riguardato poi la (re)introduzione dell'obbligo di causale, tema sul quale è tuttavia successivamente intervenuta la legge 85/23 di conversione del cosiddetto Decreto Lavoro. La più importante modifica della norma riguarda proprio la drastica ridefinizione delle causali che legittimano la prosecuzione dei rapporti a tempo determinato oltre i 12 mesi, vale a dire:
a) nei casi espressamente previsti dai contratti collettivi (nazionali, territoriali e/o aziendali), così come individuati dalla normativa stessa (articolo 51);
b) anche in assenza delle previsioni di cui al punto precedente, entro il 30 aprile 2024, per esigenze di natura tecnica, organizzativa o produttiva individuate dalle parti;
c) in sostituzione di altri lavoratori.
Attenzione! Anche allo scopo di dare modo alle parti sociali di adeguare alla nuova disciplina i contratti collettivi che non prevedessero eventuali disposizioni in materia, il termine originariamente fissato al 30 aprile è stato successivamente esteso al 31 dicembre 2024 dal cosiddetto Decreto Milleproroghe.
Dunque, ricapitolando, la normativa attualmente vigente prevede che il contratto possa essere libero solo per i 12 mesi: per durate superiori o rinnovi successivi, il datore di lavoro ha invece obbligo di specificare le ragioni per le quali intende stipulare o proseguire il rapporto di lavoro a termine. Le causali non si applicano in alcun modo al lavoro stagionale.